L’esperienza del dolore

Ieri ho sofferto il dolore,

non sapevo che avesse una faccia sanguigna,

le labbra di metallo dure,

una mancanza netta d’orizzonti.

Il dolore è senza domani,

è un muso di cavallo che blocca

i garretti possenti,

ma ieri sono caduta in basso,

le mie labbra si sono chiuse

e lo spavento è entrato nel mio petto

con un sibilo fondo

e le fontane hanno cessato di fiorire,

la loro tenera acqua

era soltanto un mare di dolore

in cui naufragavo dormendo,

ma anche allora avevo paura

degli angeli eterni.

Ma se sono così dolci e costanti,

perché l’immobilità mi fa terrore?

                                Alda Merini

Qual è il significato del dolore? Che cosa rappresenta il dolore nella nostra vita?

Scrive Jung: “Una presa di coscienza implica sempre dolore”

L’esercizio della consapevolezza produce sempre sofferenza perché comporta un’assunzione di responsabilità di fronte a ciò che abbiamo perduto e al contempo rispetto a ciò che stiamo acquisendo.

Come ricorda Salvatore Natoli: “Se è vero come dice Eschilo, che ‘sapere è soffrire’ vale anche il contrario, che soffrire è sapere”. Nel dolore l’individuo e l’assoluto si incontrano. Essendo il dolore una esperienza dell’umano, il soggetto che soffre sa che il suo patire non è soltanto il suo ma appartiene all’umanità intera. Attraverso il dolore conosciamo noi stessi, ma al contempo facciamo esperienza anche dell’altro sofferente. Nella sofferenza ci si incontra. Il dolore è sempre dunque relazione. Se io soffro, automaticamente faccio soffrire anche l’altro, ma in virtù di questa separazione della sofferenza io posso guarire, non essendoci altra cura appunto che l’intima verità della relazione.

Il dolore delimita il contesto della nostra solitudine ma delimita anche il contesto dell’essere con l’altro.

La società di oggi è terrorizzata dal dolore. La paura del dolore è così pervasiva oggi da spingerci a rinunciare persino alla libertà pur di non doverlo affrontare. Il rischio è eludere lo stesso rischio per cementare le nostre esistenze entro una prigione. È solo attraverso il dolore che ci si apre al mondo. Concordo con il filosofo tedesco-coreano Byung-chul Han – autore del saggio “La Società senza dolore” – nel ritenere l’attuale scenario pandemico un sintomo di una condizione preesistente: il rifiuto collettivo della nostra fragilità. Rifiutando la nostra fragilità e il dolore ad esso correlato, rimuoviamo il limite dell’esistenza alimentando la nostra vana bramosia di potere.

Fin dai primordi l’uomo ha avuto sempre paura della sofferenza e della morte. Il dolore rinvia inevitabilmente al pensiero della morte. L’esperienza del proprio dolore è una esperienza anticipatoria della propria morte, non solo perché limita le proprie possibilità e il proprio potenziale ma perché il dolore, come la morte, non è mai scelto dalla persona, ma semplicemente accade. Ognuno di noi quando sperimenta il dolore teme di perdere ciò che ha: vigore, potere, dinamismo, godimento, relazioni. Nello stesso tempo però quando l’uomo realizza, nel dolore, il senso della propria precarietà, si apre impetuosamente alla vita: vuole recuperare in ogni modo tempo, progettualità, speranza, futuro, desiderio. Allora la vita si schiude verso l’assoluto e diviene più densa e simbolica.

“Spesso si pensa che la soluzione al dolore sia altrove, ma è nel dolore la soluzione del dolore, sentendolo, abitandolo, assaporandolo, a poco a poco diventa parte di noi, non più un estraneo, ma un ospite scomodo, irruente, tempestoso e infine un amante e dopo la fine un pezzo di noi”

                                                                                                                                       Chandra Livia Candiani

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